“Voci femministe dal mondo: un incontro tra attiviste e studiose” è stato il tema del convegno che si è tenuto sabato 29 novembre, dalle 10 alle 13, nel complesso delle Benedettine in Piazza San Paolo a Ripa d’Arno, organizzato dalla Casa della donna in collaborazione con l’Università di Pisa.
“L’appuntamento di sabato – afferma Ketty De Pasquale, presidente della Casa della donna – ha rappresentato un ulteriore passo in avanti verso uno spazio di confronto tra femministe, attiviste e studiose, con l’obiettivo di far dialogare esperienze diverse: dall’Europa al medio oriente, al sud-est asiatico, alle aree subsahariane, a Cuba. Una panoramica sui femminismi che si sono diffusi in tutti i continenti dove sono presenti realtà in continua trasformazione, poco conosciute nel nostro Paese. E' stata l’occasione – chiude Ketty De Pasquale – per allargare lo sguardo verso pratiche, visioni e percorsi femministi che mettono in discussione modelli dominanti e aprono nuove prospettive di libertà, autodeterminazione e giustizia sociale, rafforzando reti solidali capaci di attraversare confini geografici, culturali e politici”.
Nel corso della mattinata si sono alternate Marilys Zayas Shuman, cubana giornalista e attivista femminista e componente del Comitato Nazionale della Federazione delle Donne Cubane (FMC). Dirige la casa editrice Editorial de la Mujer e la rivista Mujeres. Olga Karach, nota attivista bielorussa, politologa e giornalista, direttrice del movimento per i diritti civili bielorusso Nash Dom (La nostra casa). Attivista di fama internazionale, riconosciuta per il suo lavoro in favore dei diritti umani e la sua opposizione al regime di Lukashenko, per il quale è stata perseguitata, arrestata e torturata. Hadeel Karkar, specializzata in letterature coloniali e della resistenza, assegnista di ricerca al dipartimento di Scienze Sociali e Politiche della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha illustrato lo stato dell’arte della ricerca su realtà politiche e sociali del contesto coloniale di insediamento, mentre Renata Pepicelli, docente di studi islamici, ha parlato degli studi di genere e movimenti sociali e politici in nord Africa e nei contesti dell’Islam europeo.
Hanno terminato Alessandra Chiricosta, filosofa interculturalista, esperta di gender studies, storica delle religioni specializzata in culture del sudest asiatico continentale dell’Asia Orientale e Giovanna Spanò, docente all’Università di Pisa dove ha insegnato diritto musulmano e dei Paesi islamici.

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Hadeel KARKAR
In my work I shed light on the structure of colonial political violence. I study the discursive structure that led to colonial genocides between past and present. Before the Gaza genocide, I studied the Palestinian Nakba. I looked at narratives of loss and pain caused by the mass murder and dispossession. I also studied the early genocides in Ireland committed by Oliver Cromwell. I study the logic of elimination used against the people of Ireland, Palestine and the so-called Americas. I engage with two main strategies used by the colonialists to conquer: 1- wiping out entire populations from the land, 2- install European White settlers. I track in my work the discursive structure that make the discourse of elimination against the people of a land targeted by colonialism. Concerning my work recent work on Gaza, I track the origins of the propaganda promoting for committing a genocide long time before it had actually happened.
The women movement in Palestine started in the 1920s and it was marked by the engagement of women in the political and national struggle against the British mandate. They had organized themselves in organizations to carry out protests against the violent disturbances caused by the Zionists who were launching attacks on Palestinians in order to frighten them and push them to leave their houses. The Women movement organized meetings, formed committees and raised funds to send missions to Britain in order to protest the collaborations between the British and the Jewish immigrants. In short, we cannot understand the women movement without situating it within the anticolonial and national contexts of resistance in Palestine. The movement also established alternative economy plans to support the society. Women engagements and rigorous work continued throughout after the Nakba of 1948. After the arrival of the Palestinian Authority in 1994 and the establishment of funded non-governmental organizations, the focus of women committee’s activities diverted into a different direction. Many committees that considered themselves ‘apolitical’ were contained by the PA to serve its political agenda that is to withdraw their support to the resistance. On the other side, we have the non-governmental organizations that emerged also in the same period. These organizations rely on foreign funding to carry out these activities. There are two problems in this context: 1- Funding dictates the agenda of these organizations. 2- It prescribes the parameters of their activities. 3- In order to receive funding and to maintain the continuity of their work, organizations have to abide by the political regulations of the donating countries. For instance, they have to comply by the donating countries pacification of any political involvement of its members. The discourse on the occupation, on their daily lives under occupation should not cause any discomfort to Israel. The language that is used should be neutral. As a result, the work and attitude of the feminist organizations after receiving donations from the donating countries has become detached from the political reality in Palestine. It has deepened the sense of alienation and segregation the Occupation had strategized to maintain. It in fact made the suffering of Palestinian women caused by the Occupation become invisible.
This is one of the main challenges facing the feminist movement today, as we saw that it manifests itself in the recent genocide. Here I would not only talk about the feminist movement in Palestine, I would consider the international feminist movements who did not have much to say in front of all the inhumane atrocities and violations Palestinian women were subjected to. They have not been effective in speaking against rape in Israeli prisons, in speaking against the infanticide (the mass murder of enfants and mothers), they have not been effective in speaking against the murder of entire families. In my opinion this lack of efficiency on Palestine is structural. It has to do with the dissociation of the feminist movement from its historical foundation and organic environment. It harks back years of depoliticization and attempts of alienating the movement from the objective it had set itself to do during the different stages of the Palestinian struggle. One of the painful results as well is that the gap between intellectual elites and the rest of the society widened. In that sense, even scholarly work on Palestine (with some exceptions) fails to rise up to the occasion and offer a fair account of the atrocities Palestinian women face.
Alessandra Chiricosta
La lingua vietnamita non presenta un termine che traduca direttamente la parola femminismo. Questa assenza, però, non deve far pensare a una mancanza di movimenti di donne o di soggettività marginalizzate rispetto al genere: è piuttosto il risultato del lascito coloniale. Come in molti altri Paesi che hanno subito l’orrore del colonialismo, esiste una legittima resistenza a utilizzare termini percepiti come emanazione della cultura colonizzatrice. In Vietnam, elementi riconducibili al femminismo arrivano attraverso la colonizzazione francese e, sebbene abbiano avuto un ruolo significativo nell’alimentare la riflessione e le pratiche attiviste delle donne, portavano con sé un modello di femminilità distante dalla cultura vietnamita, spesso interpretato come un movimento di donne bianche e borghesi.
Occorre quindi riferirsi alla specificità della cultura vietnamita che, nelle sue origini, viene narrata come matrilineare e matrilocale, utilizzando il termine mẫu hệ, spesso tradotto come “matriarcato”. Sia i miti fondativi sia la storia più documentata raccontano di una forza e di una centralità delle donne in ogni ambito della vita civile: politico, militare e sociale.
L’occupazione per dieci secoli del territorio dell’odierno Vietnam da parte dell’Impero cinese ha però determinato un netto peggioramento delle condizioni di vita delle donne, educate progressivamente a una morale patriarcale di tipo confuciano, molto repressiva. Nonostante ciò, le donne vietnamite hanno sempre mantenuto un certo grado di autonomia, anche economica, e una libertà d’azione impensabile per le loro contemporanee europee.
La nascita di un movimento delle donne come motore di trasformazione sociale si intreccia con il processo di decolonizzazione del Paese. Già nell’epoca coloniale, le donne vietnamite avevano iniziato a confrontarsi e a far emergere le problematiche che le riguardavano, sia nelle aree urbane sia in quelle rurali. Ed è durante la lotta per l’indipendenza che nasce l’Unione Vietnamita delle Donne, riconosciuta dal Partito Comunista dell’Indocina nel 1930. Ho chi Minh sosteneva che “nessuna liberazione sarebbe stata completa se non fossero state liberate le donne, schiave degli schiavi”
La mobilitazione femminile durante la guerra anticoloniale contro la Francia e quella anti-imperialista contro gli Stati Uniti fu centrale e potente. Rifacendosi alla tradizione delle donne combattenti, le vietnamite furono presenti al fronte, nelle azioni di guerriglia e in ogni altro aspetto della lotta di liberazione nazionale.
Tuttavia, molte critiche sottolineano come, all’indomani della guerra, l’autonomia e l’autodeterminazione sperimentate durante il conflitto — insieme alle sue asperità — siano state tradite: la politica nazionale invitò infatti le donne a fare un passo indietro per garantire quell’“armonia familiare” ritenuta necessaria alla ricostruzione della nazione.
Nel 1986 la politica del Đổi Mới (Rinnovamento) apre il paese al socialismo di mercato, tuttora vigente, portando nuove sfide. Il ruolo dell’Unione Vietnamita delle Donne rimane importante: essa ha garantito una significativa partecipazione politica delle donne, a tutti i livelli, - ricordiamo che oggi rappresentano circa il 30% dell’Assemblea Nazionale - e ha contribuito ad affrontare questioni cruciali legate alle condizioni di vita delle donne e il conseguimento della parità, come il diritto all’educazione, all’aborto. In un Paese in cui il tasso di partecipazione femminile al lavoro è del 68%, uno dei più alti della regione, la questione delle condizioni di lavoro per le donne rappresenta una delle questioni centrali dell’Unione Vietnamita delle Donne..
Tuttavia, il fatto che l’Unione sia un’organizzazione strutturale dello Stato ha portato, secondo molte studiose e attiviste, a un’incapacità di tenere il passo con le esigenze delle nuove generazioni e con i nuovi scenari sociali. L’autonomia di un movimento femminista garantisce spesso la vitalità e la possibilità di esprimere voci anche dissonanti rispetto alle politiche ufficiali: uno spazio molto limitato all’interno dell’Unione, che fatica ormai a coinvolgere attivamente soprattutto le persone più giovani.
Una nuova forma di attivismo femminista si è quindi diffusa grazie ai social media, come accaduto in altre regioni del mondo, portando alla luce questioni sentite come urgenti ma spesso trascurate: il cambiamento nella concezione della donna, in particolare nel contesto delle relazioni affettive; la denuncia della sistematicità della violenza di genere; e la rivendicazione di diritti da parte delle persone LGBTQIAR+.
Giovanna Spanò
Quello della Sierra Leone appare un caso di studio meritevole di approfondimento, ponendo particolare attenzione alle dinamiche dell’attivismo dal basso, alla trasformazione normativa e al legame strutturale tra violenza di genere e salute riproduttiva. Collocandolo nel contesto globale successivo alla sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization negli Stati Uniti, il sistema rappresenta una controtendenza rispetto all’ondata regressiva che ha segnato, trasversalmente, diversi ordinamenti. La riforma del Safe Motherhood and Reproductive Health Act, ancora in fase di dibattito, è interprebile come l’esito di una lunga stagione di mobilitazione sociale, di decolonizzazione giuridica e di ridefinizione delle priorità sanitarie nazionali. Molteplici i processi storici, politici e socio-culturali che hanno permesso questa trasformazione, nonché le principali sfide che ancora ostacolano il pieno riconoscimento dei diritti di genere nel Paese. Nondimeno, la Sierra Leone non costituisce un’eccezione ‘regionale’, ma un laboratorio politico in grado di promuovere un effetto domino ‘positivo’ sui diritti riproduttivi e sulla giustizia di genere nel continente.
La Sierra Leone ha avviato negli ultimi due decenni un processo di riforma ambizioso, culminato nell’annuncio del 2022 di una piena depenalizzazione dell’aborto. La decisione rappresenta una frattura simbolica importante: mentre alcune delle più grandi democrazie restringono l’accesso ai diritti riproduttivi, la Sierra Leone decide di ampliarlo. Questo fenomeno rende il Paese un caso paradigmatico nella discussione globale, anche, ma non solo, perché offre una contro-narrazione rispetto alle tendenze maggioritarie. La persistenza della norma coloniale sottolinea due elementi fondamentali, poi.
In primo luogo, la natura profondamente patriarcale e punitiva del sistema giuridico introdotto dall’amministrazione britannica, volto non a promuovere la salute pubblica, ma a disciplinare i comportamenti riproduttivi e morali della popolazione.
Secondo, l’esistenza di una continuità normativa che ha sopravvissuto all’indipendenza, mantenendo vivo un impianto repressivo incompatibile con le esigenze sanitarie del Paese. Questa eredità coloniale si è tradotta in un contesto sociale in cui l’interruzione volontaria di gravidanza, pur essendo praticata in modo diffuso, avveniva nell’ombra, senza garanzie mediche e con un altissimo rischio per la salute delle donne. La criminalizzazione non ha ridotto il fenomeno, ma lo ha relegato in un circuito clandestino che ha contribuito a rendere la mortalità materna una delle più alte al mondo.
La riforma proposta in Sierra Leone deve dunque essere letta anche come un processo di decolonizzazione giuridica: la liberazione del corpo delle donne coincide simbolicamente con la liberazione da residue forme di dominio. L’avvio delle riforme non nasce nel vuoto, inoltre, ma rappresenta il culmine di un più ampio percorso di ridefinizione dei diritti delle donne iniziato nel periodo immediatamente successivo alla guerra civile. Il 2007 segna un punto di svolta con l’approvazione di un primo pacchetto di leggi orientate alla promozione dell’agency e dei diritti delle donne, tra cui il:
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Domestic Violence Act (2007), che per la prima volta riconosce la violenza domestica come reato;
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Child Rights Act (2007), che tutela i minori da matrimoni forzati e sfruttamento;
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Devolution of Estates Act (2007), che garantisce diritti successori alle donne;
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Registration of Customary Marriage and Divorce Act (2009), che regolamenta i matrimoni consuetudinari spesso fonte di abusi;
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Sexual Offenses Act (2012), rafforzato per confrontare l’emergenza degli stupri;
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Gender Equality and Women’s Empowerment Act (2021), che introduce quote e misure di capacitazione economica.
Queste normative hanno progressivamente modificato il quadro giuridico nazionale, offrendo alle donne un accesso crescente ai diritti fondamentali e creando uno spazio pubblico più ricettivo ai temi dell’autonomia, della giustizia sociale e dell’uguaglianza. Si è trattato di una trasformazione culturale, politica e sociale che ha avuto il merito di scardinare le strutture patriarcali radicate nel tessuto, pure normativo, sierraleonese. Come accennato, La Sierra Leone è, infatti, tra i Paesi con i più alti indicatori di mortalità materna al mondo; un dato che racchiude un insieme di vulnerabilità strutturali, come, tra le altre, mortalità materna, povertà e violenza strutturale. La notevole incidenza è legata a diversi fattori, quali la difficoltà di accesso ai servizi sanitari, la diffusione di aborti clandestini non sicuri, lo stigma sociale verso le donne che vi ricorrono, elevata incidenza di violenza sessuale e gravidanze minorili. Per ciò, la mortalità materna è anche paradigma di violenza sistemica. In Sierra Leone, l’accesso limitato all’assistenza sanitaria, l’assenza di alternative riproduttive costituiscono forme di coercizione indiretta. La negazione del diritto all’aborto è la punta più visibile dell’iceberg della multiforme violenza di genere. Inoltre, pratiche clandestine espongono le adolescenti – a fortiori nei casi di gravidanze non desiderate – a rischi altissimi. La mancanza di accesso all’interruzione di gravidanza amplifica il trauma e perpetua cicli di marginalizzazione, dunque.
Il Safe Motherhood and Reproductive Health Act ha rappresentato uno dei progetti legislativi più ambiziosi del continente africano. Tra i suoi obiettivi principali figurano la depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, il riconoscimento del diritto all’aborto come servizio sanitario, la regolamentazione di cure sicure e professionali, la garanzia di accesso a informazioni scientificamente corrette, l’integrazione dei diritti riproduttivi all’interno di un quadro più ampio di salute pubblica, oltre al rafforzamento dell’educazione sessuale e della prevenzione.
Il processo di drafting è stato caratterizzato da un’organizzazione senza precedenti, coinvolgendo conferenze ministeriali, consultazioni pubbliche, workshop regionali, con il ruolo attivo di rappresentanti delle aree rurali e mobilitazione delle reti di donne parlamentari. Per la prima volta, un processo legislativo sulla salute pubblica ha incluso attivamente le comunità che vivono in prima persona le conseguenze della violenza diffusa. Probabilmente, l’aspetto più significativo dell’intero processo è il ruolo svolto dell’attivismo. La riforma non è frutto di un’imposizione esterna, né di una decisione top-down, ma è l’esito di un lavoro decennale della società civile. Le associazioni femministe, i gruppi di donne rurali, gli operatori sanitari, le organizzazioni giovanili e le reti regionali hanno esercitato una pressione costante sulle istituzioni. La rivendicazione si è articolata su fronti diversificati, giacché, per le citate comunità rurali
le donne hanno portato nei dibattiti pubblici esperienze dirette di rischio, sofferenza e perdita, trasformando il discorso sull’aborto da tema astratto a questione di vita quotidiana. In aggiunta, le organizzazioni e associazioni femministe urbane
hanno svolto una parte cruciale e significativa nella produzione di materiali divulgativi e nella mobilitazione pubblica. Nondimeno, fondamentale il contributo dei/della professionisti/e della salute, che si sono impegnati/e attivamente per fornire dati, testimonianze e competenze scientifiche. La mobilitazione è stata locale, ma anche regionale (e internazionale): le reti, a tutti i livelli, hanno sostenuto e promosso la riforma attraverso strumenti giuridici locali e advocacy internazionale, tra sostrato tradizionale e ‘lessico’ dei diritti.
In conclusione, in Sierra Leone la violenza di genere non è un fenomeno isolato, ma un sistema complesso che comprende violenza domestica, stupri, matrimoni precoci, aborto clandestino, stigma sociale e controllo patriarcale. La giustizia riproduttiva – intesa come insieme di diritti, condizioni materiali, possibilità economiche e libertà culturali – ne costituisce un pilastro essenziale per affrontare tali dinamiche. Il Safe Motherhood Act ha rappresentato, quindi, una parte essenziale di un obiettivo assai più ampio, quale quello di ridurre il potere coercitivo sulle scelte delle donne e creare un framework – giuridico, politico, economico – in cui la loro autodefinizione fisica e sociale fosse pienamente valorizzata. Questo approccio si inserisce nel solco di alcuni recenti trends continentali che interpretano i diritti riproduttivi non solo come libertà individuale, ma come strumento di autodeterminazione collettiva.
Ciò dimostra che la promozione e la garanzia dei diritti non segue un percorso lineare né dipende da fattori economici o geopolitici predeterminati. Ovvero, che la geografia dei diritti sta affrontando cambiamenti rilevanti; non ‘flussi’ unidirezionali, ma produzione plurale e policentrica di modelli, pratiche e posizionamenti. Nondimeno, la piena attuazione deve confrontarsi con alcune sfide: dalle resistenze religiose e conservatrici alla carenza di risorse attuative, dalla necessità di formazione medica accurata e specialistica, alla persistente stigmatizzazione, dalle diseguaglianze (anche di accesso) economiche e infrastrutturali, fino alla reiterazione di violenze di genere e sessuali. Le speranze per il futuro, però, restano intatte, nonché l’auspicio di guardare alla Sierra Leone come leading case africano – seppur non il solo. Merita ribadire l’importanza, nel contesto, del cambiamento inaugurato non da élites politiche, ma dalla partecipazione (f)attiva di comunità e società civile, oltreché l’importanza del corpo delle donne come spazio di autodeterminazione, attraverso cui passa anche la decolonizzazione del diritto, insieme con l’inclusione dei diritti riproduttivi quale tassello irrinunciabile di un quadro sistematico ed effettivo di giustizia sociale, economica, di genere.
In un mondo segnato da regressioni, la Sierra Leone non è solo un caso nazionale, ma un laboratorio globale di giustizia riproduttiva.









